Di cavalieri, di spade e di abbracci

Ad aprile 2020, nel pieno del lockdown che la pandemia Covid ci aveva imposto, ho dovuto portare mio figlio Daniele, allora poco più di due anni, in ospedale per un disturbo che, alla fine, fortunatamente si era rivelato assolutamente transitorio. Ricordo che ero molto restia a farlo, ma i medici dello SCAP mi convinsero. Messo il bambino in macchina ci avviammo verso l'ospedale: era il primo pomeriggio di una bellissima giornata primaverile. Per tutto il brevissimo tragitto, Daniele continuava a guardare fuori dal finestrino e gridava entusiasta: "Mamma guarda! Gli alberi! Guarda come sono verdi mamma! E ci sono le macchine! Guarda mamma! Le macchine si muovono! Dove vanno mamma? Perchè non sono a casa?". Mi resi conto che Daniele stava scoprendo il mondo per la seconda volta. In un mese e mezzo a casa il mio piccolo ometto si era scordato com'era fatto il mondo fuori da casa nostra, i suoi colori e i suoi profumi. Rimasi sconcertata, ma la paura per la sua salute in quel momento occupava tutto il mio spazio mentale. Dopo poco tempo, alla fine del lockdown, arrivò il momento della prima passeggiata in mezzo alla gente: mi resi conto che Daniele era spaesato, nervoso. E lo ero anche io: tutte quelle persone, il rumore, gli sfioramenti accidentali di quando cammini, ci davano fastidio. Mentalmente, nè io nè lui riuscivamo a ritrovarci nella società una volta usciti dalla bolla del nostro isolamento e della nuova quotidianità che c'eravamo costruiti in emergenza. Per fortuna, i bambini hanno una capacità maggiore di quella di noi adulti di adattarsi ai cambiamenti. Se ci pensate, tutta la loro infanzia è un cambiamento continuo: sonno, alimentazione, gruppi sociali che pian piano si allargameno, cambiamenti fisici, esperienze sempre nuove. Con l'età questa plasticità dei nostri confini piano piano si perde, si diventa più rigidi di fronte al cambiamento: la possibilità di provare cose nuove perde la spontaneità infantile e diventiamo schiavi della quotidiniatà e della routine. Allora mi sono chiesta fino a che punto i nostri bambini possono sopportare il cambiamento. O meglio, i bambini hanno gli strumenti, le competenze e le abilità per affrontare eventi come quelli che nell'ultimo anno hanno visto coinvolta la nostra società? E che effetto produce su di loro tutto ciò? Mi viene in mente la storia degli Hikikomori. "Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato in gergo per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori." (www.hikikomoriitalia.it) I primi casi di hikikomori sono stati segnalati in Giappone negli anni '80 e la base comune erano i fattori familiari e culturali tipici di questa società caratterizzata dalla mancanza di una figura paterna e da un'eccessiva protettività materna, e dalla grande pressione della società giapponese verso l'autorealizzazione e il successo personale, cui l'individuo viene sottoposto fin dall'adolescenza Badate bene: l'isolamento degli hikikomori non è soltanto fisico. E' innanzitutto psicologico, il sentirsi soli in mezzo a tante persone che sfocia poi in un isolamento anche fisico. L'insorgenza è tipica dell'età adolescenziale e può potenzialmente durare per tutta la vita. Non si tratta di un disturbo mentale, è forse più una difficoltà di adattamento rispetto alle richieste della società tale che il mondo perde d'interesse e la solitudine, o la realtà virtuale di internet, diventano più attrattivi. Ora, l'isolamento e le restrizioni dovute alla pandemia non saranno certo causa dell'aumento di casi di hikikomori nella società italiana, ma degli effetti ci sono. Uno studio preliminare condotto dal Gaslini di Genova, sull'impatto del lockdown sui ragazzi dai 6 ai 18 anni, i cui dati sono stati pubblicati sul sito del Ministero della Salute a giugno 2020, dimostra che l'isolamento ha generato una condizione di stress non solo tra gli adolescenti (con sintomi quali sensazione di mancanza d’aria, significativa alterazione del ritmo del sonno, aumentata instabilità emotiva con irritabilità e cambiamenti del tono dell’umore, uso improprio di internet), ma anche tra i bambini al di sotto dei 6 anni (aumento dell’irritabilità, paura del buio, risvegli notturni, difficoltà di addormentamento, ansia da separazione). Durante il lockdown noi, come credo un po' tutti, abbiamo cercato di salvaguardare in ogni modo un minimo di socialità: dalle canzoni improbabili dai balconi alle sei di tutti i pomeriggi, alle videochiamate quotidiane con con nonni e zii, alle videochimate di gruppo per aperitivi e cene. Attività fisica in casa, giochi improvvisati, libri, rispetto degli orari dei pasti e delle nanne. Eppure, evidentemente, tutto ciò non è bastato. Mi sono chiesta cos'è che è venuto a mancare della socialità che ha reso duro per i nostri figli l'adattamento al cambiamento. La risposta che mi sono data è: il contatto. La fisicità, l'abbraccio, il contatto anche fisico con l'altro. Come se, in una condizione di forzato incontro esclusivamente visivo o mentale o emotivo o spirituale, il nostro corpo abbia reclamato la sua parte. Il gomito del compagno di banco, la spinta nei giochi, l'abbraccio dell'amico, il correre insieme, ricoprono l'importantissimo ruolo di stabilire il confine di sè: per dirla in parole povere, è come se io conosco il mio limite anche, e non solo, quando tocco il confine dell'altro. E nell'abbraccio apro il mio confine per accogliere quello dell'altro in un atto di fiducia. Questo momento, che fa parte del percorso di crescita e socializzazione, è quello che a mio avviso, ha risentito di più dell'effetto del lockdown ed è il livello più alto di isolamento che si ritrova negli hikikomori. Una marea di studi (che non sto qui ad illustrare sennò non arrivate alla fine del post) dimostrano l'importanza del contatto fisico, ad esempio, tra madre e neonato per un sano sviluppo affettivo. Credo che questo momento storico ce ne abbia dimostrato la necessità anche nelle fasi successive della nostra vita. E allora che si fa? Posto che le restrizioni salvaguardano la nostra salute e vanno rispettate, bisogna inventarsi qualcosa. Vi dico come ho fatto io: innanzitutto ho limitato al minimo l'utilizzo di strumenti elettronici (nel mio caso solo la tv perchè Daniele non ha ancora il permesso di utilizzare cellulari e tablet). Questo consente di evitare la chiusura in mondi ai quali noi genitori non abbiamo accesso, ma soprattutto di sviluppare eccessivamente la chiusura verso l'altro da me. Ho cercato di creare il più possibile momenti di condivisione: abbiamo inventato storie, costruito giocattoli con carta da forno, alluminio e domopak. E qualche volta l'ho fatto annoiare: perchè la presenza del vuoto aumenta la creatività. Il vuoto diventa un contenitore da riempire e mi devo inventare qualcosa da metterci dentro (se non ho a disposizione l'informatica). Da qui sono nate improbabili spade di spaghetti e combattimenti all'ultimo sangue di cavalieri a cavallo di una scopa! Insomma, allenarli e allenarci alla relazione per quanto è possibile perchè il momento del contatto tornerà, magari non subito ma tornerà. E se non ci alleniamo potremmo sviluppare una sorta di ritrosia difficile da gestire. Durante i miei anni di formazione e nella mia pratica clinica, ho capito che il momento più significativo (e quello più mi piaceva) dell'incontro con un paziente era quello finale: quello dell'abbraccio che ho sempre cercato di rendere caldo, generoso e accogliente. Ed è quello che mi manca di più da un'anno a questa parte.

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